Dicembre 12, 2024

Earendel: una stella agli albori del cosmo

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Guardare lontano nell’Universo ci permette di guardare indietro nel tempo, osservando la luce emessa da oggetti esistiti agli albori della storia cosmica. Tra questi misteriosi corpi celesti ancestrali troviamo Earendel, una stella vissuta quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni, scoperta grazie ai dati del telescopio Hubble.

Il telescopio spaziale Hubble, che nel 2020 ha festeggiato i suoi 30 anni di attività, è stato senza dubbio (ed è tuttora) tra gli strumenti astronomici più importanti della storia umana. Non soltanto ha riscosso un successo strepitoso sul piano scientifico, permettendoci di osservare il cosmo profondo come mai prima d’ora e di comprendere molto meglio ciò che ci circonda; Hubble ha anche portato l’astronomia direttamente nella nostra quotidianità, regalandoci immagini spettacolari di oggetti celesti remoti, invisibili ai nostri occhi e proiettando un’intera generazione (compreso il sottoscritto) verso un contatto più diretto con le stelle.

Eppure, anche ora mentre si accinge alla pensione, il nostro telescopio orbitante preferito non smette di sorprendere. A marzo 2022, grazie ai dati raccolti da Hubble nell’ambito del programma RELICS (Reionization Lensing Cluster Survey) è stato battuto un record a dir poco stupefacente: è stata osservata direttamente la stella singola più lontana mai scoperta finora, affettuosamente ribattezzata “Earendel” che in inglese medioevale si traduce con “stella del mattino”. Questo soprannome ha una certa somiglianza (non casuale) con Eärendil, personaggio del Silmarillion di Tolkien… perché anche noi scienziati abbiamo fantasia. E siamo nerd, molto nerd.

La stella, situata all’interno di una galassia chiamata “Sunrise Arc”, si trova alla spasmodica distanza di 28 miliardi di anni luce! Stupefatti? No? Immagino che tirare fuori dal cappello questo valore in due righe senza spiegarne il significato potrebbe non sembrare particolarmente eccitante. Per giustificare come mai gli astronomi sono andati letteralmente in visibilio per la nostra Earendel occorre fare un po’ di chiarezza: quando parliamo dell’Universo, quali sono le scale di distanza in gioco?

La stella Earendel, vista dal telescopio spaziale Hubble, è osservabile come un piccolo puntino all’interno dell’arco rosso al centro dell’immagine. Credits. NASA/HST.

Per valutare le distanze tra gli oggetti celesti, le unità di misura che utilizziamo sulla Terra sono decisamente inadatte. Prendiamo come riferimento la nostra stella, il Sole, che si trova a ben 150 milioni di chilometri dal nostro pianeta: in pratica se ci fosse un’autostrada che partisse dalla Terra e raggiungesse il Sole, impiegheremmo oltre un secolo a percorrerla tutta alla velocità di 140 km/h. Eppure, dal punto di vista astronomico, il pianeta blu e il Sole sono così vicini da essere considerati quasi come un tutt’uno.

Ecco perché gli astronomi hanno inventato altre unità di lunghezza, una sorta di “metri spaziali” per paragonare le dimensioni sconfinate nel cosmo. Uno di quelli più conosciuti e più utilizzati (anche se non l’unico) in astronomia è chiamato anno luce. Attenzione, sebbene il termine possa sembrare fuorviante, l’anno luce non è una misura di tempo, ma di spazio; si tratta della distanza che un raggio di luce percorre in un anno. Considerando che la radiazione luminosa è l’entità fisica più veloce dell’Universo (300.000 chilometri al secondo) la distanza coperta in un anno di viaggio è davvero considerevole: quasi diecimila miliardi di chilometri.

Per darvi un’idea di quanto questo valore sia “fuori scala” per un essere umano, la sonda costruita dalla nostra specie che ad oggi ha raggiunto la massima distanza da noi nello spazio è Voyager I, lanciata nel 1977. Si tratta di un oggetto che, viaggiando a circa 60.000 km/h è riuscito a superare i confini del sistema solare, ha aperto la porta del nostro palazzo galattico per muoversi nello spazio siderale alla volta di nuove stelle.

Tutto molto romantico, se non fosse per il piccolo dettaglio che la distanza percorsa da Voyager I in tutti questi anni di viaggio corrisponda ad appena 22 ore luce, la stessa strada che un raggio luminoso coprirebbe in meno di un giorno. Peccato che la stella in assoluto più vicina al nostro Sole, Proxima Centauri, ci aspetti a 4,24 anni luce, circa 41 mila miliardi di chilometri. Se Voyager I fosse diretta verso questa stella, la raggiungerebbe in circa 75.000 anni… e stiamo parlando solo dell’astro più vicino. Le stelle visibili a occhio nudo si trovano a centinaia o addirittura migliaia di anni luce; quando poi ci spostiamo alle dimensioni della nostra galassia le scale cominciano ad aggirarsi intorno alle centinaia di migliaia di anni luce.

Oltre a farci sentire profondamente inadeguati rispetto a queste scale colossali, la definizione di “anno luce” ci pone davanti a un interessante questione; la radiazione luminosa non è istantanea, impiega del tempo per muoversi nello spazio. Osservare una stella a 100 anni luce vuol dire vedere la luce che da questa stella è partita 100 anni fa; in altri termini stiamo guardando come la stella appariva 100 anni fa, l’epoca in cui il raggio luminoso ha iniziato il suo itinerario per raggiungerci.

Guardare lontano implica guardare indietro nel tempo. Si tratta di uno strumento potentissimo che l’Universo ci dona gratuitamente per permette agli scienziati di ricostruire la sua storia, fino all’alba dei tempi; ed è proprio qui che si colloca la nostra “stella del mattino”, il cui nome ora appare più che giustificato.

Approfondendo la questione sulla recente scoperta di Hubble, emerge un altro dettaglio decisamente intrigante. Secondo quanto detto finora, la luce di Earendel – che, ricordiamo, dista 28 miliardi di anni luce – dovrebbe aver viaggiato per ben 28 miliardi di anni prima di arrivare sulla Terra; tuttavia questo è palesemente impossibile visto che l’Universo esiste da appena 13,8 miliardi di anni… saremmo dunque di fronte ad una stella nata prima della genesi del cosmo stesso!

Se il cervello comincia a fumare, allora il mio scopo è raggiunto. La soluzione di questo apparente paradosso è il fatto che l’Universo non sia immobile e statico, bensì in espansione; mentre la luce di Earendel proseguiva verso la nostra Terra, il cosmo si è dilatato sotto i suoi piedi, “allungando” vertiginosamente lo spazio fisico percorso dai raggi luminosi.  Se ci pensate, è l’equivalente di correre su un tapis-roulant: di fatto ad occhi esterni siamo sempre nello stesso punto, ma dalla nostra prospettiva ci stiamo muovendo per contrastare il nastro che scorre sotto di noi.

Facendo i calcoli giusti si scopre che la luce di Earendel è vecchia di 13 miliardi di anni; la stella del mattino brillava quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni e potrebbe appartenere alla prima generazione di stelle mai formatesi nel cosmo.

Sebbene sia ancora presto per trarre conclusioni definitive, il fatto di essere riuscirti a risolvere una singola stella così lontana e così antica è un’impresa stravolgente che dimostra ancora una volta le sconfinate capacità della nostra specie, in grado di indagare, con grande destrezza, distanze e oggetti nel cosmo apparentemente irraggiungibili, al limite dell’immaginazione.

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