Ottobre 12, 2024

Nouvelle Vague: rivalsa del cinema e consacrazione del regista

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“La fotografia è verità e il cinema è verità ventiquattro volte al secondo”. Jean-Luc Godard

Nato come dimostrazione di ciò che la tecnologia avrebbe permesso di realizzare, nonché semplice intrattenimento, divenuto poi mezzo di propaganda, di denuncia o di cronaca, alla fine degli anni ‘50 il cinema si disincaglia dalla sua posizione di arte subalterna, per risplendere finalmente di luce propria e costituirsi come effettiva settima arte, con una propria estetica e un proprio linguaggio, non solo tecnico, ma soprattutto teorico e critico.

Un po’ in tutto il mondo, ma soprattutto in Europa e Stati Uniti, si diffonde la televisione, che diventa la protagonista nei salotti delle famiglie, nonché mezzo indiscusso di informazione e, soprattutto, di intrattenimento. Lasciati indietro i cinegiornali e gli avanspettacoli, persa la propria funzione esclusiva di divertire le masse, il cinema può per la prima volta permettersi di esplorare ed esplorarsi, divenire più riflessivo, nel senso primario del termine, ovvero concentrarsi su sé stesso come linguaggio, come arte, come storia.

L’epicentro di questa grande riflessione è indubbiamente la Francia, con un movimento di breve durata, ma che lascerà per sempre il segno: la Nouvelle Vague. 

Nel 1951 viene fondato il mensile di critica cinematografica Cahiers du Cinèma, con André Bazin come colonna portante. Principale sostenitore della politique des auteurs, Bazin fu tra i principali teorici dell’importanza del regista-autore, unico creatore del film, a cominciare dalla sceneggiatura. Questo approccio analizza il prodotto cinematografico alla stregua di un romanzo, conferendogli quella dignità accademica che ne farà oggetto di studio attento e privilegiato.

Nelle colonne dei Cahiers scrivono giovani talenti, che formeranno una nuova generazione di registi, appartenenti a quella cultura giovanile che, sempre più disinteressata all’impegno politico e diffidente nei confronti delle istituzioni, si identifica nelle immagini di vita urbana, auto sportive e party notturni proposte nei nuovi film. 

Questa sorta di esistenzialismo pop genera trame filmiche basate su eventi casuali, digressioni e finali sospesi, il tutto mescolato da un montaggio a tratti schizofrenico e una regia estremamente soggettiva.

Non mancano  le innovazioni tecniche che, accolte con energico entusiasmo, permettono di introdurre novità nella realizzazione dei film, spesso a basso budget: si diffonde la presa diretta, in ambientazioni reali e senza illuminazione artificiale; l’uso sempre più frequente della camera a mano, unito a una passione per il Neorealismo italiano e la sua eredità, consente di creare delle opere immediate, spesso caratterizzate da lunghissimi piani sequenza, che indugiano sui volti degli attori, per indagarne l’aspetto emotivo e psicologico.

Siamo davanti all’immagine romantica del giovane regista, che lotta per sfidare le convenzioni dell’industria, con il suo cinema personale e la sua volontà creativa; in fin dei conti, forse non molto distante da ciò che successe qualche decennio prima, sempre nella Parigi dei cafè, quando una nuova generazione di pittori rifiutò le regole accademiche, ritraendo la loro realtà, filtrata attraverso un’estetica nuova e audace, che diede vita all’Impressionismo.

Cresciuti con i grandi miti del passato, dall’Espressionismo di Fritz lang, al machismo misurato di Humphrey Bogart, questa nuova generazione di cinefili costruisce il proprio cinema, o meglio meta-cinema, incrociando citazioni e celebrazioni, intuibili a vari livelli: le più palesi, che poteva cogliere chiunque nel pubblico, e poi alcune più sottili, per addetti ai lavori, come un sussurro segreto che solo il vero appassionato poteva sentire.

In questo scambio di omaggi e allusioni, troviamo i due simboli di questa epoca d’oro del cinema francese: François Truffaut e Jean-Luc Godard: amici, colleghi, entrambi autori dei Cahiers, acerrimi nemici, ma sempre grandi estimatori del lavoro dell’altro. 

Truffaut fu il vero pupillo di Bazin e autore del film che prima di tutti diede il via a quel rinnovamento a cui il cinema ambiva: I quattrocento colpi, la sua opera più emblematica, autobiografia su pellicola, entrerà con forza in tutti i libri di storia del cinema, chiudendosi in quel finale aperto, immortalato dallo sguardo di un giovane e intenso Jean-Pierre Léaud.

I quattrocento colpi – 1959

Molto più abrasivo e provocatorio, incline all’utilizzo di una struttura frammentaria e di un montaggio brusco, spezzato, disorientante, Godard non si limita a rinnovare il cinema, bensì vuole gridare l’ostilità dei giovani verso i piaceri tranquilli delle pellicole tradizionali, sconcertando il pubblico con pellicole come Fino all’ultimo respiro e Il disprezzo. Entrambi grandi successi al botteghino e nelle colonne dei critici, ebbero anche il merito di aver consacrato i due divi Jean Paul Belmondo e Brigitte Bardot.

Il disprezzo – 1963

La spinta rivoluzionaria della Nouvelle Vague ebbe una durata breve e nel giro di un paio di anni il cinema francese tornò alla tradizione, esiliando i giovani registi che non si fossero uniformati; tuttavia, la sua eredità attraversò l’Oceano Atlantico e giunse nella terra delle grandi majors, dando vita alla New Hollywood di Scorsese, De Palma e Coppola, comparendo nelle pellicole di Allen e influenzando persino il re dei B-Movie, Quentin Tarantino.

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