Ottobre 7, 2024

L’EBREO ERRANTE E LA SUA LEGGENDA

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È dal saggio di Marcello Massenzio “La Passione Secondo l’Ebreo Errante” che prende spunto la sintesi, qui presentata, dedicata a una delle figure più affascinanti della testimonianza cristiana della Passione di Gesù. Un personaggio leggendario tracciato in origine dai racconti monasteriali del Basso Medioevo e che oggi, a distanza di circa otto secoli, è ancora in fieri. Un mito così potente da indurre l’ebraismo a promuoverne l’appropriazione. Il portiere del sinedrio Caratphilus/Joseph, il ciabattino Ahasverus e la raffigurazione allegorica della Crocifissione Bianca di Marc Chagall sono, in linea con il saggio di Massenzio, le tre chiavi di lettura proposte dall'articolo.

Il mito dell’Ebreo Errante – Genesi del mito

Si ritiene che i numerosi racconti che hanno definito il mito dell’Ebreo Errante possano collegarsi alla figura di un discepolo al quale Gesù fece riferimento in un dialogo con Simon Pietro. Ce ne dà testimonianza un passaggio del vangelo di Giovanni1:

 “Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te? »”. (Giovanni 21:23).

Pilato e Gesù al Sinedrio

A prescindere dall’attendibilità del riferimento evangelico rispetto alla figura dell’Ebreo Errante, numerose sono state le narrazioni che hanno contribuito a corroborare, a partire dal Basso Medio Evo, la leggenda di un personaggio descritto come il testimone perenne della Passione di Gesù. Secondo quei racconti, si tratterebbe di uno spettatore occasionale degli ultimi attimi di vita terrena di Cristo e da questi condannato (o forse salvato) a farsi portavoce della fede cristiana. Nelle due narrazioni più importanti, cornice di un tempo compreso tra “la temperia spirituale e filosofica del Medioevo e il fermento religioso e intellettuale preludio della sensibilità culturale moderna”2, il personaggio è dapprima il guardiano della porta del sinedrio, secondo la versione risalente alla metà del XIII secolo, per poi divenire un umile ciabattino in un racconto pubblicato agli inizi del XVII secolo. Secondo la leggenda, e in entrambe le narrazioni, il personaggio compie un atto ingiurioso nei confronti di Gesù, e questi reagisce condannando l’uomo all’attesa del ritorno del Messia. Da qui ne scaturisce un’erranza senza meta, un cammino privo di tempo che si estende fino al giudizio finale.

Atteniamoci per ora ai due racconti prescelti per inquadrare la figura di questo leggendario personaggio.

L’Ebreo Errante nei panni di Cartaphilus/Joseph (Chronica Majora – XIII secolo)

Illustrazione della Chronica Majora

Il racconto più antico matura nel monastero inglese di Saint Albans, alle porte di Londra, per parola dell’arcivescovo armeno dell’epoca che si trova, all’incirca alla metà del XIII secolo, in Occidente. Il racconto dell’alto prelato, al cospetto di Matthew Paris, cronista del monastero che poi raccoglierà nel testo delle Chronica Majora la descrizione della leggenda, riguarda la popolare figura di Joseph, un uomo ancora vivente che diventa, per avervi presenziato, testimone della Passione di Gesù. Joseph condivide il desco dell’arcivescovo armeno proprio prima del viaggio in Occidente di quest’ultimo e a lui narra la sua esperienza risalente al venerdì di Passione, quando, nei panni di Cartaphilus o Cartafilo, portiere del pretorio di Pilato, assiste al passaggio di Cristo. Cartafilo, in quell’occasione, colpisce con un pugno alla schiena Gesù e lo sollecita ingiuriosamente verso il giudizio che lo attende, quando questi, “rivolgendosi a lui con occhio e viso gravi, gli dice: «Io vado, tu aspetterai finché non tornerò»3”.

L’Ebreo Errante nei panni di Asvero (Kurtze Beschreibung – XVII secolo)

L’Ebreo Errante Ahasverus

Il racconto a noi più vicino è invece ricondotto a una lettera4 scritta in gioventù da Paul di Eitzen, divenuto poi vescovo di Schleswig, e pubblicata nel 1602 (lo scritto originario risale al secolo precedente, all’anno 1542). Siamo nella Sassonia luterana, e il giovane descrive la scena di cui è partecipe nella cattedrale di Amburgo, quando, durante un sermone, osserva la figura imponente di un uomo dai capelli lunghi, con i piedi scalzi, che ascoltando con profonda devozione la predica si percuote il petto ogni qual volta l’oratore si riferisca a Gesù Cristo.

Il nome dell’uomo, alla pronta indagine dell’estensore della missiva, è Ahasverus, Ahasuerus o Asvero, di mestiere calzolaio, ebreo di nazionalità, errante da tempo tra numerosi paesi d’Europa, e testimone, a suo stesso dire, della Passione e della morte di Gesù. Da quell’antefatto, Asvero era rimasto sempre in vita. Egli disse di appartenere alla schiera di coloro che acclamarono a gran voce la condanna a morte di Gesù e di averlo personalmente ingiuriato innanzi alla casa in cui Asvero abitava con la sua famiglia. Lì, mentre il figlio di Dio cercava sollievo al peso della croce appoggiandosi alle mura dell’abitazione, Asvero lo aveva sfidato, esortandolo a raggiungere senza indugio la meta finale, e Gesù aveva allora pronunciato alcune parole: “Io mi fermerò e riposerò, tu camminerai”.

Seguito Gesù nella salita al luogo della crocifissione, il ciabattino non fece più ritorno alla sua casa e alla sua famiglia, e così iniziò la sua erranza senza tempo, viatico indefinito per la testimonianza della Passione del Signore e per persuadere gli infedeli e gli atei al credo cristiano.

Analisi dei personaggi e loro filologia

Nella rappresentazione medievale emergono alcuni aspetti peculiari della narrazione. Vi è innanzitutto quello della palingenesi del personaggio, non solo nel ripetersi ciclico della morte e della vita, ma soprattutto nella conversione al cristianesimo. Attraverso la rinascita religiosa, Cartafilo, una volta convertitosi in Joseph, vive e opera da perfetto cristiano, pur rimanendo in lui il nodo profondo del peccato commesso con l’ingiuria al corpo di Cristo. In questo dolore originario vi è il tema del senso di colpa e del pentimento; ne consegue che l’attesa della seconda venuta del Cristo è tempo di penitenza, e in ciò vi è in nuce il concetto del Purgatorio. L’attesa, seppur priva di riferimenti di tempo e di spazio, è ricca di valore, poiché essa porta alla salvezza.

Circa l’identità ebraica del personaggio, va evidenziato che l’opera di Matthew Paris non ne fa alcuna menzione. Solo successivi medievalisti e studiosi dediti all’analisi della leggenda dell’Ebreo Errante ne hanno abbozzato la possibile collocazione identitaria. In particolare giova rammentare Jean-Claude Schmitt5 che fornisce a corredo del personaggio un’immagine conforme a una certa iconografia di ebraicità originaria6, tale da agevolarne la decodificazione secondo la specifica chiave interpretativa. Sussiste altresì una cronaca monastica italiana (Ignoti Monachi Cistercensis S.Mariae de Ferraria Chronica7) che narra di una visita di alcuni pellegrini al monastero di Saint Albans nel XIII secolo e del resoconto, fatto all’abate e ai confratelli lì presenti, di un loro viaggio in Terra Santa: in Armenia, sulla via del ritorno, essi incontrarono un ebreo la cui testimonianza della Passione di Cristo coincideva con quella associata al personaggio errante descritto dalla Chronaca Majora di Matthew Paris.

Va aggiunto che il nome Cartaphilus non è di origine ebraica. Il suo significato, “molto amato”, apre la strada a un’altra interpretazione filologica della leggenda descritta da Paris: ciò accade per il raffronto tra la dimensione fisica del contatto con il corpo di Cristo, appartenente a Cartafilo/Joseph, e quelle della spiritualità e della interiorità, appartenenti a Cristo il quale, nel condannare all’attesa il suo offensore, lo elegge a suo testimone imperituro. In questo risiederebbe la ragione del nome: molto amato, cioè prescelto per divenire araldo senza tempo della fede cristiana.

Analisi più particolari attribuiscono alla figura di Cartafilo/Joseph una posizione di medietà tra l’apostolo prediletto Giovanni, il molto amato espressione di polarità positiva, e il simbolo della negatività identificato dallo stesso vangelo di Giovanni nella figura di Malchus, la guardia del sommo sacerdote cui Pietro taglierà l’orecchio dopo la scena dell’arresto di Gesù avvenuta per opera del tradimento di Giuda. L’affinità dell’Ebreo Errante al molto amato Giovanni evangelista è una delle numerose sfumature filologiche del leggendario personaggio descritto da Matthew Paris nella sua Chronica Majora.

Venendo alla rappresentazione tardo rinascimentale, quella evocata dalla lettera del giovane Paul di Eitzen nel 1542, va sottolineato come l’emergente sensibilità culturale del tempo abbia imposto di accreditare la narrazione attraverso il contatto personale e diretto con lo straordinario personaggio8. In quest’ottica, i resoconti dei pellegrini di ritorno dai viaggi in Terra Santa o le testimonianze dei passaggi in Europa del leggendario viandante sono strumenti divulgativi fondamentali della credenza (significativo, con riguardo all’erranza in Italia, il testo di Salomone Morpugo del 18919). In questo contesto, il personaggio cambia nome e acquisisce con certezza narrativa l’identità ebraica.

Il testo di riferimento, la lettera di Paul di Eitzen, evidenzia in parte un racconto della Passione del Signore alternativo al canone evangelico e ricco di particolari non ancora svelati. Ma l’elemento di maggior evidenza è forse il mutamento che si registra rispetto al testo medievale di Paris tra un personaggio che nell’erranza senza tempo cerca la via della salvezza e una figura il cui piano di movimento è divenuto quello dello spazio: un vagabondare senza meta, dunque, un’irrequietezza fisica che sottende la ricerca inesauribile della speranza. Emerge il dittico della Passione di Cristo e della distruzione di Gerusalemme, ed ecco allora che nel vagabondare di Asvero risiede l’annullamento dello spazio: Asvero perde di colpo casa, famiglia, mestiere, patria, ed è evidente che il riferimento raffigurativo non si sottrae, per transitività e per parallelismo, al destino della comunità di appartenenza del personaggio. Nel racconto cronachistico del testo tedesco, significativo è il passaggio in cui il testimone descrive il suo stato d’animo di fronte alle rovine di Gerusalemme, al punto che Asvero non riconosce la sua città. Il non ritrovamento del luogo fisico di origine è simbolo di sradicamento e prologo dell’erranza senza fine, non solo dell’individuo, ma anche della collettività. Questa connotazione fisica rispetto alla scala del tempo è forse il tratto più pregnante e distintivo del testo redatto agli albori dell’era moderna rispetto a quello medievale.

La sintesi dei due testi sta nel valore dell’erranza, sia secondo il tempo compreso tra il già e il non ancora, in attesa della seconda venuta del Messia, sia nello spazio di cui la distruzione di Gerusalemme costituisce il microcosmo da cui partire per la ricerca dell’altrove10 e di un luogo nel quale stare. L’ebreo discepolo proposto dal medioevo diviene antagonista del Cristo nella narrazione epistolare del XVII secolo. La transizione moderna della figura dell’Ebreo Errante “si presta ad essere letta come una spia del complesso orientamento nei riguardi del popolo ebraico che prende forma nel Seicento e che appare attraversato da tensioni contrastanti: il XVII secolo rappresenta, nell’evoluzione degli atteggiamenti nei confronti degli ebrei, il momento della storia europea in cui, da un lato, l’antiebraismo medievale si prolunga senza cambiamenti […], ma in cui dall’altro lato si fa strada, almeno nelle élites intellettuali, una forma di filosemitismo”11.

Altre testimonianze divulgative della leggenda

Vi sono varie espressioni narrative dell’Ebreo Errante che hanno fatto ricorso non solo all’arte letteraria, ma anche a quella pittorica e a quella cinematografica. Anche il cinema italiano ha dedicato al leggendario personaggio un lungometraggio, datato 1948, dal titolo “L’Ebreo Errante”, per la regia di Goffredo Alessandrini, con Vittorio Gassman, Armando Francioli e Valentina Cortese.

L’Ebreo Errante di Goffredo Alessandrini (1948)

L’opera pittorica più significativa, alla quale il saggio di Marcello Massenzio12 13 dedica la sua terza parte, è la raffigurazione di Marc Chagall intitolata “La Crocifissione Bianca”. Si tratta di una raffigurazione che va oltre la mera espressione grafica e che appartiene al movimento ebraico di appropriazione del mito di Ahasverus. La tavola di Chagall, che è un figlio dello shtelt14, un rappresentante del mondo ashkenazita15, raffigura nell’angolo in basso a destra un uomo in cammino, reclinato in avanti, che porta sulle spalle un sacco povero, chiaro emblema della fuga. La scena del fuggitivo avviene accanto alla croce di un Cristo immerso nel dolore provocato dall’umanità in fiamme, con la presenza “bruna”, a lato, di un gruppo di soldati minacciosi.

La Crocifissione Bianca di Marc Chagall (1938)

Il Cristo crocifisso è cinto da un drappo non dissimile al mantello ebraico delle preghiere e ai suoi piedi arde il candelabro del tempio dai sette bracci. Il Cristo non è quindi un’icona cristiana, su cui si concentra il dolore di cui il Salvatore si fa carico, egli è bensì un Gesù ebraico, posto al centro del dolore dell’umanità irredenta alla quale il sacrificio non pone rimedio. L’opera, realizzata nel 1938, è legata al dramma dell’incombente Olocausto che portò tragicamente alla fuga la comunità ebraica europea, nonché al drammatico sterminio della Shoha. La Crocifissione Bianca rappresenta, con la sua enfasi apocalittica, la Passione ebraica. A lungo si potrebbe parlare di questa immagine così carica di presagio, e occorrerebbe farlo ben oltre i limiti di un articolo; qui giova tuttavia rammentare il valore autobiografico della tavola raffigurante l’esodo di cui lo stesso Chagall si fece protagonista quando lasciò la natia Vitebsk nel 1910 alla volta di San Pietroburgo, per raggiungere, infine, Parigi passando da Berlino.

Conclusioni

La leggenda dell’Ebreo Errante è molto di più di una tesi religiosa a difesa dell’uno o dell’altro credo, ancorché se ne sia fatto in passato un tale uso. Le narrazione delle figure di Cartaphilus e di Ahasverus, ma anche di Buttadeus, secondo la versione più vicina all’Italia, o di Isaac Laquedem nel viaggio di scoperta della città di Praga descritto da Guillaume Apollinaire16 (gli ultimi due personaggi non sono descritti dall’articolo poiché richiederebbero essi stessi un racconto loro dedicato), sono il paradigma della ricerca esistenziale insita nell’animo umano, segnata dall’ineludibile passione del vivere mai priva di sofferenza e di mistero. A ognuno, dunque, l’arbitrio di riconoscere nel leggendario personaggio dell’Ebreo Errante la lettura più consona alla propria insoddisfazione.

La non permanenza dell’esistenza terrena è di per sé, tra ciò che è stato e ciò che non è ancora, erranza perenne.


  1. Marcello Massenzio, La Passione Secondo l’Ebreo Errante, Verbarium Quodlibet 2007, p.27 ↩︎
  2. Ibid. , p.34 ↩︎
  3. Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores, vol. 7, Londra 1876, p.162 ↩︎
  4. Kurtze Beschreibung und Erzehslung von einem Juden mit Namen Ahasverus ↩︎
  5. Jean-Claude Schmitt, La Genèse Médiévale de la Légende ed de l’iconographie di Juif Errant, in Sigal-Klagsbald 2001, p.63 ↩︎
  6. Marcello Massenzio, La Passione Secondo l’Ebreo Errante, Verbarium Quodlibet 2007, p.38 ↩︎
  7. Gaël MIlin, Le Cordonnier del Jéerusalem, La Véritable Histoire du Juif Errant, 1997, Presses Universitaires de Rennes, Rennes, p.18 ↩︎
  8. Marcello Massenzio, La Passione Secondo l’Ebreo Errante, Verbarium Quodlibet 2007, p.69 ↩︎
  9. Salomone Morpugo, L’Ebreo Errante in Italia, Aldo Forni Editore, Bologna, 1891 ↩︎
  10. Marcello Massenzio, La Passione Secondo l’Ebreo Errante, Verbarium Quodlibet 2007, p.79 ↩︎
  11. Maurice Kriegel, Le lancement de la Légende ou la «Courte Description et Histoire d’un Juife nommé Ahasvérus» 2001, p.81 ↩︎
  12. Professore ordinario di Storia delle Religioni presso la Facoltà di Lettere e di Filosofia dell’Università di Tor Vergata ↩︎
  13. Marcello Massenzio, La Passione Secondo l’Ebreo Errante, Verbarium Quodlibet, 2007 ↩︎
  14. Villaggio ebraico dell’Europa Orientale di lingua e cultura Yiddish ↩︎
  15. Ibid., p.18 ↩︎
  16. Guillaume Apollinaire, Le Passant de Prague, L’Hérésiarque et Compagnie, 1910, Parigi ↩︎

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