Dicembre 10, 2024

Diritto e morale

7 min read
Alcune tra le teorie che si sono sforzate di cercare il fondamento della nostra morale.

Per molto tempo, il diritto è stato considerato come qualcosa non influenzabile dalla dottrina morale, indipendente da qualsiasi tipologia di etica. Era studiato e portato avanti come una scienza completamente asettica ed esente da un codice deontologico 

Tuttavia, per quanto il diritto debba rispondere a uno specifico funzionamento tecnico in base alla struttura di riferimento, esso è necessariamente retto da principi. Quest’ultimi rappresentano sempre una base di moralità. Certo, il concetto umano di “moralità” è estremamente cangiante e mutevole, costantemente influenzato dal periodo storico-sociale di riferimento. Tuttavia, è interessante analizzare alcune tra le teorie più importanti, che si sforzano (fallendo) di individuare una base fondativa della nostra etica.

Utilitarismo

L’utilitarismo presenta, rispetto ad altre teorie etiche e altre concezioni della morale, alcune caratteristiche estremamente vantaggiose:

1. Al suo interno non è presente assunzione ontologica (ovvero non richiede la credenza in entità trascendenti la realtà sensibile, né alcune convinzioni religiose, né deontologiche).

2. Possiede una concezione di felicità, che sembra essere difficilmente contestabile, come uno dei fini o degli obiettivi verso i quali è orientata l’esistenza e la condotta umana, ovvero sulla maggiore quantità di felicità possibile.

3. La moralità deriverebbe esclusivamente dall’osservazione o dalla rilevazione di dati squisitamente empirici. La riflessione morale può, perciò, abdicare in favore di una disciplina avente un metodo simile alle scienze sociali empiriche.

4. Alle condotte e agli eventi corrisponderebbero valori determinati, ovvero “misurabili”.

L’utilitarismo si presenta, perciò, come una teoria lontana dalla moralità, ma vicina a un ragionamento prettamente logico. Tuttavia, non è (ovviamente) esente da critiche. Le più importanti riguardano proprio la quantificazione dei dati analizzati. È possibile misurare la felicità mediante delle mere unità? Queste possono trasformarsi in una sorta di moneta?

L’utilitarismo si concentra proprio sulla monetizzazione dei valori etici, focalizzandosi costantemente sui costi e sugli utili di ogni azione e del sistema di riferimento. Tale concezione renderebbe il diritto non diverso da un normale calcolo matematico, dove i benefici di una determinata azione verrebbero soppesati ai costi della stessa. Non si potrebbe, pertanto, parlare di effettivamente di diritto.

Contrattualismo

Il contrattualismo trova le basi della propria teoria nel concetto del “soggetto egoista”. In tale visione, tutti gli individui hanno come fine ultimo la propria sopravvivenza e la soddisfazione dei propri desideri. Perciò, ogni soggetto si trova necessariamente in conflitto con tutti gli altri. La morale, pertanto, sarebbe un congegno attraverso cui combattere tale situazione di scontro, stabilendo un contratto tra le parti in gioco (come teorizzato nell’opera di Thomas Hobbes il “Leviatano”).

Ogni individuo mira ai propri interessi, ma per ottenerli utilizza delle regole ben precise, così che nessuno debba temere dell’imprevedibilità degli altri soggetti. La morale, o meglio, il principio morale principale, è proprio il rispetto di tali regole imposte.

Il contrattualismo, tuttavia, presenta alcune pecche nei propri enunciati. Infatti, per poter accettare tale accordo tra le parti, bisogna necessariamente possedere la capacità di immedesimarsi in un punto di vista esterno al nostro, accettandone i desideri e le pretese. Inoltre, acconsentendo a tali pretese, il soggetto dovrebbe necessariamente limitare i propri desideri. È fondamentale, perciò, possedere un punto di vista imparziale, che da molti è considerato come la base stessa della moralità. Secondo tale ragionamento, quindi, la moralità dovrebbe essere già presente all’interno del soggetto, ancor prima che il contratto tra le parti sia stipulato.

Tuttavia, per l’uomo egoista risulterebbe impossibile divenire un uomo morale. Secondo il filosofo John L. Mackie, perciò, si presenta la necessità di affiancare delle tradizioni e delle istituzioni che possano influenzare il comportamento umano, mediante una sorta di condizionamento. Queste sarebbero, pertanto, dei meri strumenti. Anche queste, però, risultano essere delle disposizioni morali, visto che le istituzioni mirerebbero a un bene ti tipo collettivo e comunitario, estraneo all’uomo egoista.

A tale obiezione, Mackie ha risposto che l’egoismo del singolo o del gruppo è sempre il punto di vista dell’esperienza, ma è sempre ponderato in merito a un calcolo matematico. Le istituzioni avrebbero un fine di tipo altruistico per ottenere una maggiore possibilità di evitare conflitti. Nella sua concezione, ogni soggetto diventerebbe un’istituzione, totalmente formato dal condizionamento sociale.

Nonostante anche questa risposta risulti essere fallace, nella teoria del filosofo vi è un fondo di verità. Infatti, i principi della morale non possono, in alcun caso, contravvenire alle regole basiche imposte dai bisogni e dalle strutture della vita sociale.

Mackie, inoltre, parla chiaramente di “virtù”, intese come le disposizioni ad agire in un determinato modo, affiancando la giustificazione (che è nell’interesse del soggetto) che tutti seguano le medesime disposizioni (un po’ come esplicato nella morale). Le suddette virtù, perciò, rientrerebbero sempre in un quadro e in una visione egoistica.

Tuttavia, contraddicendosi, il filosofo ha affermato che la sua teoria contrattualistica si è articolata a partire da una “concezione generale del benessere umano”. Tale affermazione, però, non è esente da obiezioni. Prima fra tutte: perché dovremmo trattare moralmente chiunque, quindi anche soggetti incapaci di poterci arrecare danno immediato, come immigrati o poveri, o completamente privati di tale possibilità, come vecchi o disabili? Mackie ha risposto che nel primo caso il trattamento morale sarebbe conveniente nell’ipotetica situazione in cui i ruoli fossero invertiti (per esempio: il soggetto che adesso è in una posizione di forza, si potrebbe trovare in una posizione di debolezza); nel secondo caso, invece, il filosofo ricorre alla spiegazione della virtù in quanto tale. Quest’ultima giustificazione, però, lo riporta in contraddizione, non confacendosi alla concezione del soggetto egoista.

Naturalismo

Una forma estremamente raffinata di naturalismo è quella che afferma l’esistenza di determinati “beni fondamentali” a cui tutti gli umani tenderebbero per natura, proprio in funzione dell’essere esseri umani (perdonatemi il simpatico gioco di parole). Partendo, perciò, da un fine specifico qualunque, attraverso un processo di analisi che tende verso una generalizzazione e un’astrazione, sarebbe possibile risalire a dei “fini fondamentali”, che sarebbero universalmente e “giustamente” percepiti come, per l’appunto, naturali.

Tuttavia, all’interno della concezione naturalistica della morale, è possibile distinguere due differenti teorie: una teoria “debole” o “leggera”; e una teoria “forte” o “pesante”.

Nella teoria debole la strategia argomentativa muove dalle concrete deliberazioni morali dei soggetti, i quali possiedono specifici fini, per dimostrare che quest’ultimi implicano altri fini, che a loro volta sono derivati da “generi universali”. In tal modo, è possibile sostenere la correttezza o la scorrettezza morale del punto di partenza del soggetto.

Un processo estremamente simile è applicato da Habermas nella “teoria del discorso”, dove, partendo dal concreto e dalla realtà delle azioni, vengono enunciate delle deliberazioni morali, di cui viene, successivamente, analizzata la struttura argomentativa.

La teoria morale naturalistica nella sua versione debole, perciò, appare come un corpo di modi di affrontare e condurre una discussione senza pretese più sostanziali. La teoria di John Rawls, in un certo senso, appartiene a questo approccio. Infatti, la sua teoria politica spiega come impostare il ragionamento per pervenire ai principi fondamentali di un ordine normativo istituzionale.

Rawls reinterpreta l’esigenza basica dell’imparzialità a partire da una certa situazione contro fattuale, la quale, dopo essere stata ulteriormente elaborata, fornisce certi criteri normativi generali.

In tutti questi ragionamenti il criterio di correttezza non sarà fornito dalla corrispondenza a una realtà morale, quanto dalla coerenza tra principi fondativi e ciò che intuitivamente si percepisce come morale. Tuttavia, in tale concezione non si crede a una deduzione stringente dei suddetti principi, dato che questi ultimi si danno mediante astrazione.

Se invece ritenessimo di possedere una prova logica della deducibilità del principio fondamentale, allora ci troveremmo in una teoria naturalistica nella sua versione forte, che pretende di possedere un fondo oggettivo, universalmente indiscutibile, e dimostrabile.

La sopracitata teoria ha lo scopo di prefigurare, e anche predeterminare, i fini della condotta umana con un margine di errore estremamente basso. L’etica, altrimenti, non avrebbe senso.

Gli obiettivi dei soggetti, perciò, assumerebbero un valore di tipo strumentale rispetto ai beni di cui sono una specificazione. Quello a cui aspirerebbe la versione forte, perciò, non sarebbe la conoscenza della natura umana, quanto la sua comprensione.

Uno dei principali esponenti di tale approccio è John Finnis. Quest’ultimo ha affermato che l’evoluzione umana non può essere misurata rispetto a determinati valori fondati, ma che è l’evoluzione stessa a fondare tali valori.

La regola base della moralità, perciò, sarebbe “non scegliere mai in modo diretto contro un bene umano fondamentale”. L’essere umano, secondo Finnis, non avrebbe valore per alcune sue caratteristiche peculiari (Kant considerava l’Io e l’intelligenza), ma per i beni che si manifesterebbero e si specificherebbero nel soggetto.

Vi sarebbe, perciò, una possibilità di intellezione dei beni morali, al di là della riflessività. Processi vitali e intuitivi sarebbero, quindi, più importanti di quest’ultima.

In tale concezione, il filosofo Germain Grisez ha distinto l’esistenza di due tipologie di beni: quelli sostantivi (propri di tutti gli esseri umani); e quelli riflessivi (nati da specifiche speculazioni). I primi, essendo “naturali” avrebbero un valore basico e fondamentale rispetto ai secondi.

In tale visione, però, non solo vi è una forte ed evidente spinta biologica, ma vi è una riduzione quasi totale della scelta morale.

Difatti (e questa è la critica principale a tale approccio), un bene morale può essere considerato tale solo nel caso in cui provenisse da un ragionamento autonomo. Esso deve necessariamente essere il risultato di una deliberazione, di un successivo operare, e, infine, di una scelta. La morale, perciò, è sempre radicalmente relativa all’agente, e ogni deliberazione in tal senso risulta essere unica.

È vero, da una parte, che ogni deliberazione che determini i fini concreti di un’azione possa orientarsi a beni generali, ma, dall’altra parte, i suddetti dovrebbero essere estremamente generici e di vaga determinazione.

A ragion di ciò, anche i più radicali oggettivisti hanno sempre ammesso l’impossibilità di ottenere un “senso di verità” ad alti livelli di oggettività.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Copyright © All rights reserved. | Newsphere by AF themes.