Dicembre 10, 2024

D’ANNUNZIO TRA ARTE E SCIENZA DEL NOVECENTO

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È nello spazio in cui arte e scienza si confondono che il genio amante si manifesta. E così, in quell’ambito, la fantasiosa epifania dell’umano sentire cede il passo al metodo e alla regola. Così accade che arte e scienza non solo si confondano, ma persino si compenetrino, per poi, in sinergia, risuonare all’unisono.

Indiscutibilmente riconosciuto come uno dei giganti della letteratura italiana, il giornalista, poeta, scrittore e drammaturgo Gabriele D’Annunzio non seppe rinunciare nella sua epifania artistica all’enfasi narcisistica dell’estetismo. Anzi, il piacere estetico fu mezzo e tramite di quella manifestazione. Il suo estetismo si innervò tra sensi e raziocinio e si sublimò in un vero progetto di vita. Egli volle fare del suo racconto esistenziale un grandioso monumento.

IL GIUDIZIO SULL’UOMO E SULL’ARTISTA

Il giudizio dell’attualità sociale e politica su D’Annunzio è tuttavia diviso tra le qualità dell’artista e quelle dell’uomo. Le sue opere rivelano, infatti, senza remore e spesso senza pudore, la compulsione erotica verso l’emisfero femminile. Quella non dissimulata e incontenibile confessione collide con i favori dei nostri tempi, non tanto per la dissacrazione dei costumi, cui siamo d’altronde ben adusi, quanto per l’irrinunciabile parità di diritti tra genere femminile e genere maschile che connota la visione sociale contemporanea. Oggi non si ammette più che la donna possa essere intesa e usata quale scintilla e sprone del piacere maschile. Accade allora che, omettendo di osservare le diversità tra i tempi di allora e di oggi, il discrimine critico divenga severo e aspro nel giudicare una personalità che fu invece, per la sua epoca, ricchissima di preziose e rare virtù. Il rapporto con le donne, che per D’Annunzio fu sorgente, alveo e foce della sua arte, osservato attraverso la lente dell’odierna socialità, può allontanarci dal dovuto apprezzamento nei riguardi di una figura dal profilo umano e artistico straordinario. A ciò si aggiunga che Il rapporto di D’Annunzio con il fascismo, forse non accuratamente narrato, è divenuto e diviene facile strumento ad appannaggio di chiunque abbia voluto e ancora voglia detrarre valore all’uomo e all’artista. Occorre dunque proporre una lettura del personaggio storico attenta, evitando analisi morali che si riconducano a erronei stereotipi perbenistici, a strumentali pretesti politici o a battaglie sociali che solo oggi riscuotono, nel loro valore, piena condivisione.

D’ANNUNZIO SCIENZATO DELLA COMUNICAZIONE SOCIALE

D’Annunzio esprime sin nei primi anni di vita un’incontenibile irrequietezza che ben presto sfocerà nell’arte letteraria. Sin da adolescente, quando frequenta il noto collegio Cicognini di Prato, l’esuberante Gabriele assume con ardore la leadership di qualche rivolta studentesca. Non sazio del riconoscimento di quell’esercizio di comando, che solo più tardi troverà compimento nell’illusoria gloria di Fiume, soprattutto non sazio del primo bacio a Clemenza, dal quale, a suo giudizio, tutte le donne sarebbero state clementi con lui, il futuro Vate dà alla luce la sua prima opera in versi: “Primo Vere”. Era il 1879 e il giovane Gabriele era ancora un adolescente. Il padre, non meno orgoglioso del figlio, e suo vero primo maestro di virtù ma in particolar modo di vizi, assicura la pubblicazione di quel debutto.

Inizia così un’epopea artistica e letteraria che durerà fino alle sue ultime ore. Una parabola di pensiero, canto e tormento che non solo esprimerà una delle più alte liriche oratorie, ma che rivoluzionerà, con gli effetti propri dell’avvento scientifico dell’epoca, l’esercizio delle idee, i modi e i costumi, la comunicazione sociale. Sì, D’Annunzio fu scienziato della comunicazione sociale e i suoi esperimenti estetici, il cui distillato sgorga come linfa preziosa e rara dall’alambicco dei suoi manoscritti, scrivono i nuovi teoremi del sentire e del comunicare.

Da “Primo Vere” alla scalata sociale di Roma

È evidente che l’incipit artistico di “Primo Vere” non possa bastargli: il giovane Gabriele vuole molto di più, quello è solo l’inizio. Non appena conclude gli studi al collegio toscano, il giovane si lancia nell’ascesa al soglio dell’aristocrazia romana. Iscritto alla facoltà di lettere e filosofia, disattende il corso di studi, ma non manca di accendere con l’incanto del suo eloquio i cuori, specie quelli femminili. Quella verve oratoria infiamma i salotti romani e presto anche le cronache locali. I frequentatori del lusso capitolino, ormai adombrati dall’umore decadente di chi già avverte la perdita del proprio primato, cedono alle lusinghe del giovane istrione, forse riconoscendo in lui l’esaltazione del loro lignaggio. Al suo fascino cede anche Maria Hardouin di Gallese, figlia del duca omonimo ex sottufficiale degli Ussari francesi. Con Maria, l’improvvido amante fugge in segreto a Firenze. Presto ricondotta a Roma, la coppia di giovani amanti dichiara lo stato di dolce attesa di Maria. Il matrimonio riparatore è sì obbligo, ma anche opportunità per iscrivere il casato di Gabriele negli albi nobili dell’ambito ceto.

Da quel momento in poi, con l’ineludibile strazio di Maria e di una famiglia che in poco tempo arrivò a contare tre pargoli, questi ultimi rapidamente sottomessi all’imponente figura genitoriale, si inanella per Gabriele un susseguirsi di trionfi e di cadute, di amori e di opere.

Dalla poesia alle cronache mondane – La letteratura italiana mutuata dal giornalismo

D’Annunzio riversa nel giornalismo, sua prima “arte e mestiere”, la letteratura italiana dei grandi classici. Quella comunicazione veloce, fatta per impressionare e per suscitare emozioni, scopre espressioni inusitate, addirittura mai esistite. In quella modernità espressiva ha luogo il superamento, coerente con le attese di una società che scalpita per diventare industriale, di un classicismo ottocentesco che imbrigliava nel suo rigore morale ogni velleità di cambiamento. Il positivismo della seconda metà dell’Ottocento è ormai superato e l’accettazione degli effetti naturali del vivere, ammirati staticamente dalla contemplazione impressionista, è travolta dai ritmi della modernità, della tecnologia, dell’ardimento, del coraggio. La guerra, la Grande Guerra, non è lontana. Tutto deve essere potente, nuovo, veloce, fuggente.

La sessualità come istinto estetico

La poesia, con la sua metrica, arricchita dai neologismi dannunziani, si presta ad assecondare i ritmi dell’incipiente futurismo; ma non basta. Occorre condire l’armoniosa simmetria poetica con contenuti sorprendenti. La sessualità, che in lui irrompe come puro istinto estetico, va espressa al pari dell’ebbrezza procurata dall’ardimento tecnologico. Non importa se l’enfasi impudica dei sensi infrange la morale comune; anzi, il clamore dei cocci vitrei prodotti dalla rottura degli schemi cristallizzati dell’antichità sono specchi adatti a riflettere il successo. D’Annunzio arriva a definire il sesso come esperienza della morte prima della morte, ed egli incanta con quella definizione. Se poi qualcuno giudica come grave impudicizia l’ardore dannunziano, bè allora il sesso, espressione del nobile ardimento, diviene scandalo solo per gli ipocriti e per i bugiardi.

Lo scrittore – Il romanzo

Da scienziato sociale, D’Annunzio spinge oltre la sua ricerca. Nel suo laboratorio letterario e sensoriale, la poesia non basta più, le cronache giornalistiche della mondanità ancora meno, serve un romanzo. Non a caso, dopo sette mesi di clausura, quel romanzo si intitolerà “Il Piacere”. Il successo consacrò definitivamente l’artista giornalista, poeta e scrittore alle cronache non solo nazionali.

La politica – Letteratura tradotta in azione politica

La politica, cui mai egli si concesse senza ritorno, pur divenendo parlamentare tra le fila dei liberali, per poi presto passare alle schiere opposte della sinistra, lo assorbe poco, quanto basta per concedere al suo istrionismo l’uso di quella maschera e per conferire alla sua letteratura il pathos dell’azione politica.

La drammaturgia e la modernità nelle arti espressive

La drammaturgia, alimentata dall’amore per la grande attrice nomade Eleonora Duse, che lui amò forse più di altre donne, arricchisce il suo carnet di femmine e di arte. Il cinema ancora muto affianca e sopravanza il teatro, e già D’Annunzio preconizza che alla cinematica delle immagini in bianco e nero occorra presto dare voce e suono.

Le automobili iniziavano a sfrecciare, e lui stesso dirime su richiesta di Giovanni Agnelli la diatriba sul genere femminile o maschile della parola automobile decretando che essa potesse avere solo genere femminile, poiché l’automobile aveva la grazia, la snellezza e la vivacità di una seduttrice. Conia altri neologismi della lingua italiana che divengono presto di uso corrente: tramezzino, velivolo, fusoliera, intellettuale (mutuando il termine non più solo come aggettivo), beni culturali, milite ignoto, vigile del fuoco e molti altri. È genio inventore della comunicazione e si occupa di marketing lanciando brand di grande successo. I moderni influencer possono essere visti come suoi modestissimi epigoni.

Il rapporto con le religioni

Il rapporto di D’Annunzio con la religione fu condizionato dal suo ateismo, ma di tutte le religioni ammirò i caratteri, consacrandone indistintamente i riti e gli usi. Fu esteta della figura di San Francesco, di cui elogiava la scelta monastica e il rapporto con il creato. Anche il fieno, arriva a decantare il Poeta nei versi de “La Sera Fiesolana”, patisce il taglio della falce.

L’ardimento

Diviene pilota di aereo, poiché il volo è ardimento e modernità, e solo in volo egli può cogliere il fascino della superficie del Lago di Garda, luccicante come la calza di una donna. L’arte aeronautica asservirà le sue imprese, tra cui il volo su Vienna che preannunciò al nemico, con l’irridente volantinaggio, il monito beffardo della sconfitta. Ma fu anche Cavaliere di Novara, durante la guerra, meritando decorazioni e lustri. E poi fu eroe incursore nella baia di Buccari, a bordo di tre motoscafi anti sommergibile usati come mezzi di penetrazione delle difese nemiche. Grazie a quei veloci natanti, da cui vennero lanciati alcuni siluri, presto imbrigliatisi nelle reti di protezione del porto austroungarico, l’insenatura oggi croata fu irrisa dal contenuto di tre bottiglie rilasciate in mare: un messaggio di sfida alla presunta inviolabilità della baia e, con essa, del dominio imperiale di Vienna.

Lo “Stile Notturno” e l’inizio dell’eclissi

Un atterraggio di fortuna durante la guerra, nel 1916, procura a D’Annunzio il distacco della retina dell’occhio destro e con esso una temporanea cecità. Ecco allora che nella convalescenza adombrata da quell’evento, egli non solo concepisce un’altra delle sue opere letterarie più celebri, sublime per intensità poetica, “Il Notturno”, ma inventa, per così dire, un metodo di scrittura per non vedenti. Allo scopo usa delle strisce di carta su cui annota i brevi frammenti della sua lirica. Le strisce sono di misura prestabilita, tagliate pazientemente dalla figliola napoletana Eva Adriana Renata, la Sirenetta dell’opera. Il metodo gli permette di trovare con le dita, ben posizionate rispetto ai bordi, i riferimenti per l’allineamento e per la lunghezza delle frasi nel buio. L’assenza di luce, non più impedimento alla scrittura, diviene viatico introspettivo e sensoriale scevro di ogni distrazione. Ne nacque uno stilema letterario nuovo, lo Stile Notturno appunto, composto da tanti frammenti folgoranti, aforistico.

La Repubblica Fiumana e il sogno anarchico di libertà

La Repubblica Fiumana, postuma alla vittoria mutilata, epilogo secondo D’Annunzio della Grande Guerra, fu la consacrazione del Poeta Soldato che divenne, per acclamazione dei suoi numerosi sodali e legionari, il Comandante. Anche Fiume, cui D’Annunzio avrebbe voluto annettere l’Italia, e non il contrario, fu laboratorio di ideali estetici associati alla libertà dell’essere umano: la libertà dell’individuo in un’ottica di giustizia sociale ne fu il fine e il proclama. Nella Carta del Carnaro, che di quell’esperimento politico rivoluzionario fu codice costituzionale, Alceste De Ambris, anarco-sindacalista e capo di gabinetto del governo fiumano, vi conferì l’anima rivoluzionaria, mentre il Comandante, con i suoi incisi, vi annesse una connotazione più classicistica e romantica. In essa si propugnava la parità di genere, il suffragio universale, l’obbligo del servizio militare per donne e per uomini, il salario minimo, il rispetto della proprietà privata senza che questa potesse provocare nocumento all’interesse superiore della collettività. Poco durò quell’esperimento. Tollerata dagli alleati, che ad ogni buon conto ne assediavano il presidio romantico, inizialmente accettata dal governo italiano, che aveva tuttavia ratificato gli accordi di pace di Parigi e che non poteva quindi dimostrarsi indefinitamente accondiscendente, la Repubblica Fiumana ebbe il suo epilogo nel Natale del 1920, dopo circa sedici mesi di vita. I colpi di cannone dell’Andrea Doria, su ordine del governo italiano di Giolitti, dissuasero la volontà di difesa a oltranza. Troppo, infatti, sarebbe costato resistere.

IL VITTORIALE DEGLI ITALIANI – EREMO E MONUMENTO

Da quell’episodio fallimentare ma bello, che vivo ardore suscitò in molti italiani, D’Annunzio, segnato dalle fatiche fisiche e morali subite, decise di ritirarsi nel suo eremo di ultima virtù. Scelse un luogo a nord, affacciato sull’acqua, optando per Gardone Riviera sul lago di Garda, le cui acque luccicanti come la calza velata di una donna replicavano i bagliori marittimi dell’adriatico natio. Lì cominciò un’opera nuova, la più grandiosa, complessa e monumentale della sua vita. Il Vittoriale degli Italiani, suo mausoleo, in cui cristallizzare il ricordo e alimentare, in un’estasi onirica di profumi e di chiaroscuri, la terminale vena artistica.

“Il Libro di Pietre Vive”

Il Vittoriale degli Italiani – con questo titolo la storia ci consegna il luogo di narrazione pulsante che fu eremo del Poeta Soldato ed Eroe di Fiume – fu donato da D’Annunzio allo Stato Italiano poco tempo dopo l’acquisto della proprietà. Lo scopo insito in quel gesto fu di sostenerne le spese di ampliamento e di sviluppo, ma anche di consacrarne l’esistenza quale immutabile patrimonio per gli Italiani. Lui stesso, il Poeta, definì il Vittoriale un “Libro di Pietre Vive”.

Aprire quel libro richiederebbe uno spazio troppo ampio. Basti accennare che da Gardone Riviera D’Annunzio professò la sua avversità alla deriva germanofila del fascismo, caricaturizzando Hitler come il “ridicolo nibelungo truccato alla Charlot”. Derise la vanità di Mussolini, i cui sodali egli definiva camice sordide, non nere, e fece attendere l’ospite ingombrante in una delle due anticamere, la meno accogliente, dove forse per pochi istanti, a sufficienza per notarli, D’Annunzio presentò al Duce alcuni suoi brevi versi apposti su uno specchio: “Al visitatore… o Mascheraio… pensa che sei vetro contro acciaio”.

Al Vittoriale spese le sue residue energie letterarie per completare “Il Notturno”, l’ultima sua grande narrazione poetica, e lì vi amò, una ad una, le Badesse, le ospiti così evocate del suo eremo. Gli spazi della Prioria, dove viveva, divennero toponimi suggestivi del culto estetico dannunziano: la stanza della Leda, del Mascheraio, della Zambracca, l’Officina, la stanza delle Reliquie, del Monco e altri luoghi ancora.

L’EPILOGO E IL SOGNO DI LIBERTÀ A OGNI COSTO

D’Annunzio fu giornalista, poeta, scrittore, drammaturgo, aviatore e marinaio, cavaliere, condottiero rinascimentale, comandante, incantatore di folle, seduttore e amante. Fu l’uomo che inventò se stesso, fu superuomo esteta ben oltre il superomismo nietzschiano, e con il suo estetismo divenne inventore e divo della modernità. Egli fu, soprattutto, amante avido della libertà. Il Presidente della fondazione dedicata al Vittoriale degli Italiani, Giordano Bruno Guerri, storico e accurato biografo di D’Annunzio, dalle cui parole ho tratto molti degli spunti per questo articolo, cita in un interessante documentario realizzato per la RAI due dei moltissimi aforismi coniati dal Poeta. Meglio di altri, forse, i due frammenti caratterizzano lo spirito estetico libertario di D’Annunzio: “non chi più soffre ma chi più gode conosce” e “conservare intiera la libertà fin nell’ebbrezza”.

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