Novembre 11, 2024

Ammalarsi di Arte. Intervista a Marco Sgrosso

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L'arte è una splendida malattia in grado di far riscoprire all'uomo la sua dimensione corale e non solo. Ce lo spiega Marco Sgrosso
Marco Sgrosso

In una società ormai governata da un pragmatismo sfrenato e dal relativismo etico, ritiene che il teatro possa fare riscoprire alle nuove generazioni la dimensione corale dell’uomo?

Penso di sì, e non soltanto la sua dimensione corale. Sono convinto del valore etico e civile del teatro e della sua capacità di affinare nell’uomo pensiero e sentimento, senza inibire le sue potenzialità “ludiche”, che sono alla base della vitalità artistica e consentono di mantenere attive la curiosità, l’apertura mentale, la libertà di giudizio. Il teatro, quando è palestra di espressione e contagio di emozione, esalta la dimensione corale dell’uomo senza mortificare le peculiarità individuali. Parlo ovviamente di un teatro sano, ispirato, libero dai dogmi con cui molti operatori del settore tendono a catalogarne le forme, e alieno dalle diffuse rivalità interne. Il buon teatro si fa infatti insieme, nell’armonia di un rapporto condiviso, in un concatenarsi di scintille creative, dove il talento del singolo nutre la compattezza del gruppo, dal quale trae a sua volta forza e sostegno.

Nell’immaginario collettivo moderno, sciaguratamente, l’artista è spesso percepito quale lo scansafatiche che conduce una vita non proprio “ortodossa”. A cosa crede sia dovuto questo convincimento malsano?

Bisognerebbe intendersi sul significato di “immaginario collettivo moderno” e sul reale valore che esso dovrebbe avere all’interno della comunità. Una certa tradizione benpensante ci ha abituati a percepire l’artista come un individuo estroso ma inaffidabile, affascinante ma ambiguo, sessualmente promiscuo, privo di regole: una creatura potenzialmente portatrice di disequilibri civili, il cui prezioso dono della creatività artistica è controbilanciato dall’assenza di principi morali. Varrebbe la pena di riflettere sulle origini di questi falsi miti, senza dimenticare che secondo altre prospettive l’artista si accosta al “vate” come profeta dell’arcano: svela e rivela quella parte dell’uomo che lo pone in contatto con il suo spirito. In epoche non tanto remote gli attori venivano sepolti in terra sconsacrata, assecondando una moralità bigotta incoraggiata dalla Chiesa, che etichettava la disinvoltura comportamentale come malattia dell’anima. Ma è anche vero che in fasi più illuminate, ad esempio in certe situazioni di mecenatismo, l’artista è stato investito di considerazione e prestigio sociale e ossequiato in virtù della sua sensibilità creativa. La verità è che l’artista autentico è condannato all’inquietudine e soffre la dicotomia inconciliabile tra le esigenze della creatività e le regole del vivere comune, non tanto per capriccio quanto in virtù della sua capacità visionaria.

Al giorno d’oggi pensa sia plausibile per un ventenne investire nell’arte a livello professionale o suggerirebbe di relegarlo al ruolo di hobby?

Credo che l’arte non possa essere definita un “hobby”. L’arte è una splendida “malattia” per chi la crea e una necessità dello spirito per chi la comprende nella sua essenza più pura. Una scelta di vita obbligata dal dono del talento che urge e dalla gioia dell’ispirazione. Per alcuni artisti può essere addirittura una condanna, per altri una necessaria via di fuga dalla mediocrità, ma è un dono che non sempre arreca gioia. Artisti si nasce, anche se è certamente possibile sviluppare e affinare il proprio talento, e in alcuni casi anche imparare a rivelare ignote  doti sepolte. Faccio fatica a pensare che la vera arte possa essere un “investimento”, sebbene molti celebrati artisti abbiano conquistato un notevole benessere economico, nel senso che chi si pone l’obiettivo di praticare l’arte per ‘arricchirsi’ difficilmente può essere considerato un artista. Talento e passione purtroppo non sono sufficienti ad affermarsi e sono assai frequenti i casi di artisti che vivono in precarie condizioni economiche. Ad un ventenne di oggi consiglierei di tentare il salto se avverte in sé quella urgenza, di nutrire la passione e resistere alle difficoltà del percorso, ma di non ostinarsi caparbiamente in assenza di riscontri tangibili e di valutare con attenzione se “il gioco vale la candela”, perché non è scontato che lo sia.

Nel 1993 sorge su iniziativa sua e di Elena Bucci la compagnia teatrale “Le Belle Bandiere”. Alla luce di questi trent’anni di esperienza, quali consigli darebbe ai/alle giovani ragazzi/e che intendono assecondare le proprie passioni avviando un progetto? Quali sono stati gli impedimenti più ostici che ha affrontato all’inizio?

Le condizioni attuali sono profondamente mutate da quelle di trent’anni fa, quando Elena ed io fondammo la nostra compagnia sotto la spinta di una limpida passione. La nostra scelta fu in gran parte dovuta all’incoraggiamento del nostro maestro Leo de Berardinis, artista geniale e autodidatta, che si era costruito una credibilità professionale, assieme alla sua compagna storica Perla Peragallo, in un’epoca di reazione al teatro di prosa classico e di furiosa ricerca di nuove forme e nuovi contenuti. La trasmissione dei saperi è fondamentale perché il teatro è un’arte artigianale, che si impara e si affina con la pratica sul campo. La prima cosa necessaria a chi intraprende un percorso artistico in autonomia è avere un maestro o un modello di riferimento e coltivare in sé l’umiltà dell’apprendimento. Avviare un progetto proprio può essere per un giovane la scelta migliore per sfuggire allo sconforto di sentirsi un cane sciolto nella giungla di occasioni fasulle, falsi specchi e situazioni umilianti che questo mestiere può generare in chi non ha chiarezza di intenti e di riferimenti. Al tempo stesso si tratta di una scelta rischiosa, che deve essere supportata da passione, pazienza, convinzione, intelligenza, volontà di allargare i propri orizzonti e soprattutto dalla capacità di comprendere ciò che la creazione di una ‘casa artistica’ comporta, ossia predisposizione verso le competenze tecniche, burocratiche, amministrative necessarie a mantenere in vita una piccola ‘ditta’.

Ammesso che sia possibile scegliere, in quale tra i personaggi da lei interpretati si è immedesimato con più trasporto? Ha mai guardato a qualcuno di questi quale modello di vita?

Devo dire che, fin dall’inizio, ho avuto la fortuna di interpretare (quasi) sempre personaggi che ho molto amato e nei quali sono sprofondato con passione ed entusiasmo. Ciò dipende anche dalla passione che provo nel proiettarmi nell’universo umano di altri esseri, cercando di scoprirne l’essenza e lasciandomi ‘ammalare’ da loro. Sono un attore che cerca di entrare nella pelle del personaggio, di capirne le motivazioni, respirare con la sua anima e guardare con i suoi occhi, amare e odiare con il suo cuore. Detto questo, ovviamente ho una rosa di personaggi preferiti, a cominciare dal primo interpretato con Leo: Edmund il bastardo nel “King Lear”, un pozzo sconfinato di sfumature che ho avuto il prezioso regalo di affrontare a 23 anni e che mi sarebbe piaciuto tornare ad interpretare con la consapevolezza maturata nel tempo. Circa dieci anni dopo, in una nuova versione del Lear, Leo mi assegnò il ruolo del fratello buono, Edgar. All’inizio ci rimasi male perché avrei voluto tornare nella pelle di Edmund, ma lui aveva l’occhio più lungo del mio, aveva capito che ero pronto per affrontare quest’altro mondo parallelo, forse persino più complesso, e anche con Edgar mi è sembrato di volare. Del resto con Shakespeare è difficile ‘cadere male’: i suoi personaggi sono universi in perpetuo movimento. Con la nostra compagnia abbiamo messo in scena “Il mercante di Venezia” e in quell’occasione ho dovuto lottare duramente per trovare un accordo con Bassanio, personaggio affascinante ma sfuggente, co-protagonista scomodo e sbiadito, come si dice in teatro ‘una tinca’. Con “Macbeth” invece è stato amore assoluto a prima vista, nonostante l’immane difficoltà di rendere la sua forza titanica. Lo stesso vale per i Tragici Greci: la ricchezza di sfaccettature possibili è immensa. Penso a Prometeo con Leo e a Creonte nell’Antigone, riaffrontato anni dopo anche con la nostra versione. E poi ci sono gli autori preferiti, primo tra tutti Cechov, magico inventore di creature miracolose, tutte senza esclusione, a partire dagli schizzi geniali degli Atti Unici: Lomov nella “Domanda di matrimonio” o Smirnov ne “L’orso” e Njuchkin di “Fa male il tabacco”. E Ibsen, altro titano: sono affondato nel tenero e insulso Jorgen Tessman di “Hedda Gabler” e avrei voluto portarlo con me per sempre. Ma anche gli autori contemporanei possono creare perle di valore inestimabile. Il quasi sconosciuto Achternbusch con “Ella” mi ha regalato il personaggio che ho amato con maggiore dedizione e passione di ogni altro: un indimenticabile tuffo nel vuoto quasi irripetibile. E recentemente ho scoperto la genialità di Thomas Bernhard, supremo! Rudolf Holler in “Prima della pensione”, umanamente orrendo, è stato un altro viaggio meraviglioso senza catene di sicurezza. Molti sono quelli che sogno di poter affrontare in futuro, a partire dal George di “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Albee, dal Conte Cenci di Shelley e Artaud, o alcuni stupendi personaggi di Strindberg.  E molti sono quelli che mi sono sfuggiti e per i quali purtroppo non ho più l’età: con rammarico penso a Sigismondo, splendido protagonista di quell’opera meravigliosa che è “La vita è sogno”, ma fortunatamente sono ancora in tempo per il vecchio Basilio, altrettanto potente. Vorrei però dire che spesso un personaggio magico ti può fiorire tra le mani nel corso del lavoro senza esistere prima sulla carta o in un testo. Con Leo è capitato perché spesso lavorava su scritture sceniche originali, come nel caso del “Ritorno di Scaramouche”, dove il mio amatissimo Vongola nacque dal lavoro di improvvisazione nel corso delle prove. Metodo che Elena ed io abbiamo ereditato e ampiamente sviluppato nel nostro percorso e che è stato alla base della recente felice collaborazione con Roberto Latini, al quale devo l’adorato cameo di Eleonora nel “Teatro comico” di Goldoni, grottesco pastiche en travestì in cui mi sono divertito moltissimo. Non posso però dire di avere mai immaginato un personaggio come ‘modello di vita’, anche se da tutti ho senza dubbio imparato qualcosa che credo mi sia servito a crescere come uomo, oltre che come attore.

Quale futuro si prospetta all’orizzonte per la produzione teatrale italiana? Teme diverrà un’attività sempre più di nicchia?

Il tempo attuale è piuttosto triste per la professione teatrale, nonostante mi capiti di constatare che la partecipazione del pubblico è spesso numerosa. Certamente si avvia a essere un’arte di nicchia in un’epoca dominata dal consumo rapido, distratto e delirante imposto dai social, dove nulla sembra avere valore reale e ogni evento viene vissuto secondo un’ottica sempre più forsennata dell’usa e getta. Tutto è uguale a tutto, chiunque esprime opinioni su qualsiasi argomento, incompetenza e arroganza di giudizio regnano sovrane e la difesa del talento e della professionalità rischia di apparire noiosa e obsoleta. A questo scenario si aggiunge il disastroso indirizzo delle nuove disposizioni ministeriali, che riconoscono come requisiti di merito alle compagnie sovvenzionate l’affastellamento indiscriminato della quantità di produzioni di brevissima durata e continuano a consentire la criminale politica degli scambi, mettendo il cappio al collo a chi è privo di spazi da offrire come merce di baratto. I tempi di produzione diventano sempre più brevi, i budget sempre più risicati, gli spettacoli prodotti vengono abbandonati subito dopo il numero minimo di repliche necessarie a garantirne il contributo ministeriale. Come se ciò non bastasse, l’operato di parecchi operatori e critici è altrettanto nocivo. I primi soggiacciono a meccanismi di mercato basati su reciproche convenienze; i secondi latitano di competenze e si barricano in cordate omologate spesso autoreferenziali, decidendo arbitrariamente quali compagnie sostenere e svuotando di senso il valore profondo della relazione con gli artisti. Nonostante tutto questo, io sono ancora convinto che la specificità del teatro sia insostituibile nella comunità civile, in quanto deriva dalla forma di espressione e comunicazione più antica e nutre la necessità innata dell’essere umano di raccontarsi e rappresentarsi, qualunque sia la forma che ciò possa assumere nell’evoluzione e nel mutamento dei tempi storici.

Ringraziamo Marco Sgrosso per averci concesso l’intervista.

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